17. Status Quo
status quo
stà|tus quò
loc.s.m.inv., lat.
lat. mod. status quo propr. “lo stato in cui”, v. anche statu quo.
1a. TS dir. nella terminologia giuridico-diplomatica, condizione di fatto che sussiste nel momento in cui l’espressione viene adoperata
1b. TS dir. nel diritto privato, situazione giuridica che esisteva prima del verificarsi di un determinato evento
2. CO situazione di fatto che si manifesta in un determinato periodo: mantenere lo status quo, la dichiarazione di guerra ha modificato lo status quo del paese
Il Nuovo De Mauro liquida così la faccenda. Beh, del resto è un dizionario e come tale fornisce una definizione di “status quo” e di tante altre cose.
Nella versione audio vado a spiare, un po’ immaginandolo e un po’ no, quello che è successo in alcuni uffici di etichette discografiche quando ci sono stati artisti che hanno mirato diretti al cuore dello status quo. Facendolo in maniera diretta, senza compromessi e con tutta l’arroganza possibile.
Uno status quo che, se lo guardiamo oggi da vicino, ama la cosiddetta commodification. La standardizzazione delle cose, sì anche nell’hip hop e forse mai in maniera così esplicita e sfacciata (puoi dirlo, siamo solo io e te qui, che un sacco di uscite nuove sembrano fatte con la copia carbone dei preset delle librerie dei suoni e tutto sembra uguale). Una standardizzazione che ha occupato tutto lo spazio del dissenso. Quanto meno nel mainstream.
Sotto, in quella parte di mondo che è l’underground le cose funzionano ancora, per fortuna, ma ad ogni modo tranne quel rapper bianco (come si permette, ha tuonato qualcuno) sono davvero esigue le voci di dissenso su quanto sta ancora accadendo in Palestina.
Per fortuna che sulla rete qualcosa si riesce a leggere e così come è capitato di parlare e ascoltare McAbdul c’è anche un articolo sul rap palestinese.
Poi c’è quel rapper bianco (peccato capitale, a meno che non ti chiami Eminem) che McAbdul lo ha invitato nella seconda parte del suo pezzo sulla Palestina.
Scelgo il video perché merita di essere visto nella sua essenza cruda, senza filtri, anche se serve la verifica di essere “adulti”.
E fortunatamente ci siamo anche noi italiani, rappresentati da Assalti Frontali.
Se ascolti rap italiano e non li conosci, beh, loro sono nati come entità nel 1990 e meritano sicuramente un ascolto come atto di rispetto nei confronti della tua libreria di cose che ascolti dagli streaming.
Su Mixcloud parlo di uno dei miei dischi preferiti di sempre che è ‘Sleeping With The Enemy’ di Paris che è uscito dopo diverse peripezie (che racconto di là) il 24 Novembre del 1992.
19 giorni prima, George W Bush arriva secondo alle presidenziali con 168 voti elettorali. Superato dai 370 aggiudicati a Bill Clinton. Inizia l’era dei baby boomer e Clinton sarà il Presidente Rock And Roll.
Suona strano “presidente rock and roll” perché il rock and roll era la musica sovversiva della fine degli anni 50 e degli anni 60. All’inizio degli anni 90 diventa il nuovo mainstream. Quel rock and roll che negli anni 50 spaventava i genitori i quali ritenevano quella musica così distante da quella di Frank Sinatra fosse il trampolino per l’esposizione dei figli a un mondo fatto di lussuria, vizi, delinquenza. Uno schema che si ripete, periodicamente, con i generi musicali che impostano una cultura come ad esempio il rap.
Chuck Berry, Little Richard, Fats Domino come Public Enemy, Tupac, Ice Cube ed Elvis Presley come Eminem, ci sta. Così come il ban del rock and roll dai juke box e del rap dalle radio. E l’impossibilità di contenere la diffusione di un genere, di una cultura, di un modo di esprimersi dei giovani della loro epoca che come tutti i giovani di tutte le epoche non è che accettino a testa bassa le imposizioni dei genitori e le loro tradizioni.
Quella musica che era sovversiva (il rock and roll) diventa il nuovo mainstream insieme alla retorica spicciola a base di “va tutto bene” e “facciamo festa” mentre ammazziamo il welfare, sgranocchiamo stereotipi sulle minoranze e compiacciamo la borghesia bianca che ci regala questo soggiorno alla Casa Bianca.
Nel 1992 ci sta pensando il rap a fare casino, in qualche modo.
Un genere che espone le contraddizioni di un Paese e allo stesso tempo rappresenta l’anelito degli uomini per trovare la propria appartenenza, il proprio posto nel mondo. Un concetto che ripeto spesso perché è uno dei cardini fondamentali per poter aprire il codice e guardare dentro cosa sta succedendo per davvero.
Se si analizzano i dati, ecco che nel 1992 secondo Sound Data il 74% della musica rap venduta nell’anno è stata acquistata dall’America bianca. Significa quindi che l’Hip Hop si è trasformato da espressione di un quartiere di New York in un giro di affari miliardario mondiale. Un giro che fa anche dei danni irreversibili alla cultura o quanto meno fa in modo che della cultura ne venga esportata solo la parte di esagerazione, di “lifestyle”, quella che può aiutare ad alzare i fatturati delle aziende che hanno interessi economici dentro la cultura hip hop. Di certo, quello che non viene esportato è l’anima della cultura perché, come il rock and roll, quell’anima resta ribelle. E i ribelli non sono mai piaciuti ai pochi che detengono il potere, i ribelli non sono mai andati a genio a coloro che per mantenere il proprio potere, la propria posizione, non possono tollerare che ci sia del dissenso.
Nel 1992 un ribelle è stato sicuramente Paris.
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