Io le storie che volevo raccontare per il momento le ho finite.
Mi rimangono tutte le domande alle quali non sono riuscito a dare una risposta, Unsupervised o meno. Però questo nostro girovagare per le strade delle due Americhe mi ha portato fino a qui.
Fino al momento per cui, adesso, mi piacerebbe fosse la tua curiosità ad andare avanti e a continuare questa storia. Una storia che continua sotto quello che il mainstream copre, sotto quello di cui si cerca di portare davanti sui social e che interessa più quegli account in cerca di like piuttosto che chi è appassionato di questa arte così complessa e stratificata.
Lo so, è difficile alle soglie del 2025 pretendere questo tipo di attitudine, ma la letterina a Babbo Natale la si scrive comunque, anche quando si diventa adulti.
Nella versione audio, dopo questo episodio ne uscirà un altro che è nato in maniera del tutto diversa rispetto ai 26 che ho condiviso sino a qui. Nel prossimo episodio ci saranno le considerazioni che sono maturate durante Unsupervised, quelle che vogliono spostare il discorso anche in altri campi perché, alla fine della fiera, quello di cui abbiamo parlato è delle storie degli uomini. E le storie degli uomini sono più grandi dell’hip hop. Lo sapevamo anche prima.
Però questo succederà la prossima settimana. Oggi abbiamo le domande da fare.
Sapevi che l’Hip Hop nasce come risposta a una profonda disuguaglianza sociale? Le "strade americane" percorse dalla comunità afroamericana raccontano molto di più di un semplice viaggio: sono un simbolo della crepa tra due Americhe, quella che insegue il Sogno Americano e quella relegata ai margini.
Proprio da queste strade, spesso ignorate, è esploso il rap, un genere nato agli incroci della vita quotidiana. Un momento per condividere storie, difficoltà e sogni. E che storie! Dai racconti dei vicini, alle lotte per dare un futuro ai figli, il rap ha trasformato disuguaglianze e ingiustizie in rime potenti.
Però, alla fine, di cosa parla il rap?
Di razzismo sistemico, del sistema giudiziario penalizzante, di un sistema carcerario che punta più al guadagno che alla riabilitazione. Temi che gridano giustizia e uguaglianza. Come il jazz, il soul e il funk prima di lui, il rap è diventato un megafono per chi non ha voce.
Eppure, nonostante la forza del suo messaggio, questa cultura si è spesso scontrata con l’accusa di incitare alla violenza. È surreale pensare che, tra il 2009 e il 2019, ben 500 casi in tribunale hanno usato testi rap come prove contro i loro autori. Ma chi ha mai citato scene di film come Il Padrino o Full Metal Jacket per lo stesso scopo?
Alla fine, il rap è molto di più: è memoria, denuncia, e soprattutto speranza. Una speranza che spinge verso un futuro migliore, dove il colore della pelle non definisce le opportunità.
Quindi, la prossima volta che senti una barra, ascoltala bene: potresti trovarci dentro un mondo.
L’Hip Hop non è mai stato solo musica: è comunicazione, tradizione orale e un riflesso profondo della società. I racconti dei rapper, per quanto spesso non interamente autobiografici, portano con sé metafore potenti e immagini che scavano nella realtà della vita afroamericana.
Una vita che sicuramente passa dal grandissimo problema delle armi negli Stati Uniti. Un problema che i rapper hanno preso in considerazione, facendone musica.
Alcuni esempi raccontano quanto i testi rap possano essere stratificati. 2Pac, con "Me And My Girlfriend" (1996), descrive la sua pistola come una compagna di vita, mentre Nas, in "I Gave You Power" (1996), dà voce direttamente all’arma, raccontando il suo potere distruttivo. Vince Staples, con "When Sparks Fly" (2022), e gli Organized Konfusion, con "Stray Bullet" (1994), amplificano questa narrazione: l’arma non è solo oggetto, ma simbolo della violenza sistemica che permea le comunità marginalizzate.
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Il rap è il megafono delle disuguaglianze: racconta di razzismo, brutalità della polizia e sopravvivenza in un sistema che spesso ignora intere comunità. Non si limita a cronache fredde, ma trasforma i fatti in richieste di aiuto, invocazioni di diritti uguali per tutti. Skyzoo, in una sua lirica, intreccia la speranza con la realtà, mostrando quanto la musica possa essere tanto denuncia quanto promessa di un futuro migliore.
Nato dalla "povertà creativa" delle strade, il rap inizialmente utilizzava ciò che era disponibile: campioni di funk, soul e disco. Crescendo, ha incorporato le tecnologie, evolvendosi in qualcosa di complesso e sofisticato. Ma il suo DNA è rimasto legato alla protesta e alla narrazione della quotidianità.
Tuttavia, il mercato di massa ha presto compreso il potenziale economico dell’Hip Hop, trasformandolo in commodity. I suoi messaggi più destabilizzanti sono stati edulcorati, mentre i rapper diventavano icone glamour vestite da stilisti e privati del legame con la loro comunità. La cultura è stata commercializzata, e la denuncia ha lasciato spazio all’ostentazione, trasformando il rap in un simbolo di consumo globale più che di resistenza locale.
Se negli USA i pionieri del rap come KRS-One e Afrika Bambaataa mantenevano forte l’identità culturale, in Italia i messaggi del genere sono stati spesso fraintesi o annacquati. Esempio emblematico è Jovanotti, con brani come "Gimme Five", lontani dalle radici autentiche del rap, a fronte di artisti come Assalti Frontali o 99 Posse, ancora fedeli al DNA originale.
Il rap resta, nonostante tutto, una forma d’arte che nasce per essere vista e ascoltata. Ma la sua essenza rischia di essere inghiottita dal mercato globale, che ne vende un’immagine rassicurante e sfrutta l’immaginario culturale per il profitto. Il rischio è che, fuori dal contesto originale, il rap si riduca a intrattenimento svuotato del suo cuore, un cuore che batte per ricordare a tutti la dignità di chi vive ai margini.
Il rap, nella sua essenza, è una collisione: tra realtà e sogno, tra marginalità e visibilità. Nel grande circo mediatico, ai rapper viene spesso riservato un posto d’onore, ma non senza conseguenze. L’essere elevati a simbolo pop li separa dalla loro comunità d’origine, che non di rado li percepisce come traditori, venduti al capitalismo di quell’“altra America” che prima li ignora, poi li inghiotte.
Eppure, il rap non si arrende. Se le classifiche premiano una versione diluita e semplificata, nelle piccole botteghe culturali, lontano dai riflettori, si coltiva ancora l’Hip Hop delle origini: quello che racconta gli incroci sterrati della vita, spesso non segnati sulle mappe, frutto delle contraddizioni sociali nate, ad esempio, dalle cicatrici della Cross Bronx Expressway.
Dagli anni Ottanta, periodo simbolico della nascita dell’Hip Hop, i contesti socioculturali sono mutati, così come i presidenti americani. Ronald Reagan, George H.W. Bush, Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump e Joe Biden: ciascuno ha lasciato un segno nella traiettoria del rap, direttamente o indirettamente.
Il rap è un riflesso delle decisioni politiche, una colonna sonora alternativa del Sogno Americano, che resta spesso un miraggio. Attraverso testi taglienti e beat potenti, la cultura Hip Hop evidenzia gli scollamenti tra la retorica politica e la realtà quotidiana, trasformando i proclami elettorali in slogan vuoti. La musica diventa una forma di educazione civica alternativa, che denuncia ciò che la politica non risolve: disuguaglianze, esclusione, ingiustizie.
Il rap nasce dal trauma e su di esso si costruisce, come un tuono che scuote le coscienze. È il rumore degli incroci mancati, delle due Americhe che si separano ancora una volta, seguendo direzioni opposte. Eppure, anche in questo scenario, rimane accesa una luce: quella della resistenza. Una luce che illumina l’America dei dimenticati, quella che, al posto del sogno, ha ricevuto un incubo, ma che non smette di costruire, mattone dopo mattone.
La resilienza dell’Hip Hop può essere riassunta nei versi di T.S. Eliot:
"In luoghi abbandonati
noi costruiremo con mattoni nuovi...
Dove le parole non sono pronunciate
costruiremo con nuovo linguaggio.”
E qui sorge una provocazione: Eliot potrebbe essere stato il primo rapper? Certo, la forma è diversa, ma la tensione verso la ricostruzione, il raccontare ciò che è stato distrutto per immaginare un nuovo futuro, è profondamente simile.
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