26.02.2012
Ovvero uno degli inizi di una delle più buie notti delle due Americhe.
Era il 26 febbraio 2012, una tranquilla serata a Sanford, in Florida. Trayvon Martin, un diciassettenne qualunque, camminava verso casa dopo aver comprato un sacchetto di caramelle e una bibita. La felpa con il cappuccio calato sulla testa era un simbolo della sua generazione, non un'arma. Trayvon era un ragazzo normale: appassionato di football e videogiochi, smontava biciclette per guadagnare qualche soldo. Ma quella sera, la sua normalità lo rese sospetto agli occhi di George Zimmerman, un vigilante del quartiere, determinato a proteggere la sua comunità.
Zimmerman, con alle spalle episodi di violenza domestica e una dipendenza dall’alcol, sentiva di avere una missione: mantenere il vicinato al sicuro. Vedendo Trayvon, decise di pedinarlo, convinto che fosse pericoloso. Pochi minuti dopo, una colluttazione e uno sparo segnarono il destino del giovane. Trayvon era morto. Zimmerman, grazie alla controversa legge della Florida "Stand Your Ground", che permette l'uso della forza letale in caso di minaccia percepita, fu giudicato innocente. Ma quale minaccia rappresentava un ragazzo con delle caramelle in mano?
Quella notte, l'America si guardò allo specchio, vedendo riflessi che non poteva ignorare. Trayvon non era il primo, né sarebbe stato l'ultimo. Decenni prima, nel 1955, un quattordicenne afroamericano di nome Emmett Till era stato brutalmente linciato nel Mississippi per aver presumibilmente offeso una donna bianca. Le immagini del suo corpo martoriato sconvolsero il mondo, ma gli assassini rimasero impuniti. Anni dopo, il nome di Trayvon si unì a quello di Emmett come simbolo del razzismo radicato nella società americana.
Nel 2013, un semplice hashtag iniziò a circolare sui social: #BlackLivesMatter. Era un grido di rabbia, una richiesta di giustizia, un appello per un’America diversa. Ma l'America era ancora spezzata. Da una parte, coloro che lottavano per l'uguaglianza, dall'altra quelli che cercavano di mantenere lo status quo. Si parlava di “due Americhe”, divise non solo da questioni razziali, ma anche da valori culturali. Guerre culturali che esplosero anche con il movimento #MeToo, nato per combattere le molestie sessuali, e con il fenomeno della “cancel culture”, che tentava di punire pubblicamente chi perpetuava comportamenti discriminatori.
Intanto, il razzismo sistemico continuava a soffocare le comunità afroamericane, come dimostrato dal fenomeno del redlining. Anche se ufficialmente abolito nel 1968, il redlining – la pratica di negare mutui e servizi finanziari ai quartieri neri – aveva lasciato cicatrici profonde. Ancora oggi, le famiglie afroamericane pagano tasse più alte sulle proprietà e vivono in quartieri segnati dalla segregazione.
Il 25 maggio 2020, a Minneapolis, la misura fu colma. George Floyd, un uomo afroamericano, venne fermato con il sospetto di aver usato una banconota falsa. Derek Chauvin, un agente bianco, gli premette il ginocchio sul collo per otto minuti e 46 secondi, soffocandolo. Il video della sua morte fece il giro del mondo, scatenando proteste globali contro la brutalità della polizia e il razzismo.
Per la comunità afroamericana, Floyd era un simbolo. La sua vita, segnata da povertà e dipendenze, era uno specchio delle disuguaglianze sistemiche. Discendente di schiavi, aveva vissuto gli effetti della “War on Drugs” e delle politiche che avevano criminalizzato le comunità nere. Ma la sua morte divenne il punto di rottura. Le piazze si riempirono di manifestanti che gridavano: “I can’t breathe”.
C’è un libro, a mio avviso fondamentale, da leggere per approfondire la storia di Floyd ma allo stesso tempo la storia di molti ed è quello di Robert Samuels e Toluse Olorunnipa.
Un libro che non è solo un memoriale, ma un manifesto per il cambiamento e vale ogni minuto speso a leggere le sue pagine.
A Washington, in quell’occasione, Donald Trump reagì ordinando una repressione brutale. Mentre i manifestanti venivano sgomberati da Lafayette Square con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, il presidente posava per le telecamere davanti alla chiesa di St. John, alzando una Bibbia come simbolo di autorità. Era un gesto che per molti rappresentò l’indifferenza del potere davanti alla sofferenza (no, non la pubblico quella foto).
La pandemia di COVID-19 aveva già messo in ginocchio la comunità afroamericana, colpita da un tasso di mortalità sproporzionato. L'accesso limitato alle cure mediche e le disuguaglianze economiche esacerbarono una situazione già insostenibile. In questo contesto, la morte di George Floyd non fu solo un episodio di brutalità, ma il simbolo di un sistema ingiusto.
Eppure, dalla tragedia nacque una nuova ondata di consapevolezza. Leader come Kendrick Lamar, Common e Black Thought usarono la loro musica per amplificare il messaggio di lotta e resistenza.
Come quella di Anderson .Paak, prima che inziasse a credere davvero troppo nell’essere un perfetto cosplayer (diciamo che dalla collaborazione con Bruno Mars per SilkSonic il ragazzo di Oxnard ha davvero cambiato rotta)
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