Questo episodio è nato strada facendo, mentre sistemavo quelle cose che volevo mettere in Unsupervised, cancellavo quelle che avevo solo abbozzato ma non riuscivano a trovare spazio, pensavo a una sequenza e mi perdevo dentro qualcos’altro.
Questi sono - sistemati - gli appunti che ho salvato. E quando li ho guardati tutti insieme ho notato che c’era un filo che li legava ed è lo stesso filo che ho cercato grossolanamente di sciogliere negli episodi.
Una coda, quasi una bonus track, che non volevo rimanesse soltanto sull’hard disk.
Ho immaginato un mondo in cui ogni passo, parola e scelta sono legati da fili invisibili che intrecciano la mia vita con quella degli altri. Questo è il nostro mondo, e quei fili sono le identità che ci definiscono: genere, razza, classe sociale e molto altro. Questo intreccio complesso ha un nome: intersezionalità.
Coniato da Kimberlé Crenshaw, il termine intersezionalità rappresenta l’idea che oppressioni e discriminazioni non agiscono in modo isolato, ma si sovrappongono e intrecciano.
Come un brano hip hop che mescola ritmi diversi per creare qualcosa di unico, la nostra identità è un mix di esperienze e influenze. L’intersezionalità, come l’hip hop, sfida il passato, decostruisce convinzioni radicate e propone un futuro fondato su nuove connessioni.
L’hip hop - l’ho ripetuto diverse volte - non è solo un genere musicale, ma un movimento culturale e sociale che, come l’intersezionalità, si contamina e si evolve. La disco, il funk e il soul si sono fusi per dare vita al rap, creando un linguaggio nuovo e più complesso. Entrambi, hip hop e intersezionalità, offrono prospettive alternative sulla società, mettendo in discussione ciò che sappiamo per includere voci finora ignorate.
Questa attitudine critica si riflette nella coscienza politica, una consapevolezza personale del proprio ruolo nel sistema e delle azioni necessarie per cambiarlo. Se metti sotto un beat questa riflessione e ci costruisci delle barre, hai trovato l’essenza del rap.
Mentre succedeva Unsupervised, nel mio lavoro ho avuto a che fare con chi deve passare il vaglio della peer review e a un certo punto è arrivato anche l’hip hop.
A.D. Carson, professore di hip hop alla University of Virginia, incarna questo spirito. Nato a Decatur, Illinois — una città segnata da profonde disuguaglianze razziali — Carson utilizza l’hip hop per sfidare le convenzioni accademiche. La sua tesi di dottorato, Owning My Masters: Rhetoric of Rhymes and Revolutions, è un disco rap che affronta temi sociali con rigore scientifico. Per Carson, l’hip hop è come un telescopio: uno strumento per mettere a fuoco le ingiustizie e raccontare la realtà in modo accessibile e potente.
Apprezzo che l’hip hop venga a volte celebrato nel mondo accademico, ma mi sembra che gran parte dell’entusiasmo si concentri sull'hip hop come un particolare tipo di contenuto piuttosto che su ciò che insegna alle persone riguardo altre cose nel mondo, molte delle quali non riguardano l’hip hop. Per me l’hip hop è come un telescopio e gli argomenti di cui parlo sono come corpi celesti o galassie. Portando avanti questa analogia astronomica mi chiedo se abbia senso passare più tempo a parlare del telescopio che ha messo a fuoco e reso più nitida la vista di quegli oggetti lontani o se non abbia invece senso dedicare quel tempo alla discussione dei fenomeni reali che il telescopio permette di vedere?
Le leggi Jim Crow, lo Stonewall Inn, i ghetti afroamericani: tutti esempi di come la società abbia storicamente segregato e oppresso. L’intersezionalità rifiuta questa frammentazione, cercando di connettere le esperienze vissute con un’analisi strutturale delle oppressioni. Allo stesso modo, l’hip hop dà voce a chi è stato escluso, creando comunità e costruendo ponti tra identità diverse.
La Critical Race Theory (CRT) è un altro strumento per comprendere le disuguaglianze radicate nella società. Questo approccio accademico analizza come il razzismo permea il diritto e la cultura americana. Rifiutando l’illusione della color blindness, la CRT rivela come le gerarchie razziali continuino a influenzare il nostro presente.
Come sottolinea Kimberlé Crenshaw, la CRT non è solo una teoria, ma un metodo per analizzare le disuguaglianze e immaginare un mondo più giusto. È una lente che, come l’hip hop, ci invita a vedere oltre le apparenze e a costruire una narrazione inclusiva e trasformativa.
Le sfide che affrontiamo — dal razzismo sistemico al cambiamento climatico — richiedono cambiamenti strutturali profondi. Dobbiamo pensare in termini di solidarietà, abbandonando privilegi e tradizioni per creare un futuro in cui ogni identità possa trovare il proprio posto. Come ci ricorda la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.” Ma questa promessa non può rimanere solo una melodia lontana: deve diventare una realtà concreta, costruita con scelte consapevoli e battaglie condivise.
Se sei arrivato fin qui, sai che il cambiamento è possibile. Ora, la domanda è: da che parte scegli di stare?
Arrivati a questo punto, che cos’è stato Unsupervised? In definitiva, è stato un osservatorio. Un osservatorio che, pur concentrandosi su alcuni aspetti dell’America, ha cercato di dire di più. So di aver deluso chi si aspettava una narrazione cronologica dell’hip hop. Non era mai stata mia intenzione fornire una cronologia dettagliata, una storia lineare. Molti lo hanno fatto prima di me, e Unsupervised non è alimentato dallo spirito di competizione. Piuttosto, l’hip hop, come ho cercato di mostrare, è servito da collante per esplorare aspetti più profondi della società americana e, per estensione, della società globale.
Ciò che emerge è una realtà complessa: quella cultura che ci hanno detto essere una contro-cultura, nata dal dissenso e dalle disuguaglianze, è stata assimilata e trasformata dal capitalismo stesso. I rapper più celebrati, quelli che ottengono visibilità e successo, spesso non criticano lo status quo; piuttosto, lo celebrano, vivendo secondo le sue regole e vantandosi dei loro traguardi personali, che comprendono ricchezze e vite di lusso. In questo processo, non solo ignorano le problematiche che li hanno ispirati inizialmente, ma si trasformano in ingranaggi della macchina sociale che li ha oppressi.
La società, in questo senso, non ha alcuna intenzione di livellare le differenze o garantire diritti equi a tutti. Il potere non ha interesse a concedere pari opportunità a chi è oppresso; il razzismo sistemico non scomparirà con la buona volontà dei singoli, né i benefici materiali ottenuti da alcuni individui cambieranno la realtà del sistema. I benestanti possono ignorare il razzismo sistemico e la storia di oppressione che ha forgiato la loro condizione, ma la realtà è che il sistema rimane intatto e perpetua le sue gerarchie.
Questa dinamica si riflette in altre sfere della società. Considera il giovane che consegna cibo a domicilio, costretto a giocare alle regole di un sistema economico che lo sfrutta, guadagnando meno del salario minimo mentre i profitti vengono accumulati da aziende enormi. O chi lavora ogni giorno e rischia la vita, mentre lo stato è assente o impegnato a preservare i propri interessi e le proprie gerarchie. Anche se in Italia il rap è derivativo e spesso lontano dalla cultura che pretende di rappresentare, il problema della superficialità e della mancanza di consapevolezza rimane.
Più in piccolo? Che differenza trovi, nello schema, fra quello del razzismo sistemico e del gioco al massacro del potere economico quando ti trovi davanti a un ragazzo di 20 anni. Che fa il raider, che ti consegna a casa il gelato, l’hamburger, qualsiasi cosa tu voglia in quel momento a distanza di un tap del tuo telefono, che guadagna meno del salario minimo ma è costretto a giocare alle regole del massacro di una sorta di Hunger Game per il tuo benessere e il vantaggio di avere la cena senza preoccuparti di cucinare con lo squillo del citofono?
Che differenza c’è con tutti quelli che la mattina si sono recati al lavoro per uscirne in una bara mentre uno Stato sempre più assente è impegnato a dare il benvenuto a criminali, a pensare a chi mettere nelle liste per la prossima lotteria del potere, negare diritti alle minoranze, cercare con ogni mezzo di non inquinare la propria razza perché chi arriva con un barcone è immediatamente messo nelle liste dei pochi di buono, come se la corruzione politica invece fosse un vanto?
La domanda allora è: cosa dobbiamo ancora disimparare per rompere questo codice? Forse non dobbiamo disimparare nulla, o forse dobbiamo disimparare tutto.
Ripartire da zero potrebbe essere una via.
Invece di cercare di aggirare le regole degli algoritmi, dovremmo esplorare quelle pagine di storia che sono state strappate dai libri di scuola, perché i nomi e le storie di chi ha lottato per il cambiamento spesso rimangono trascurati, stampati su pagine che sono state strappate da tutte le copie stampate dei libri di scuola perché va bene il Pleistocene, ma non va bene che il Pleistocene occupi tutto il tempo a disposizione, tre volte, e non ci sia tempo per Martin Luther King, Malcolm X, Angela Davis, Donald Trump, Antonio Gramsci, Enrico Mattei, Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Nilde Iotti, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi, Federica Gasbarro, Mariasole Bianco, Fannie Lou Hamer, William Ruto, Benard Kioko Ndaka o per Adriano Olivetti.
Ecco cos’è stato Unsupervised: un tentativo di mettere in discussione il racconto dominante, ponendo domande senza avere le risposte, consapevoli che il processo non finisce mai. Perché nessuno di noi, da solo, può cambiare la società. Possiamo solo fare delle micro fratture nel sistema e sperare che queste diventino contagiose. Mantenere uno spirito critico è fondamentale per evitare di diventare parte di una massa manipolata dai pochi che esercitano il vero potere. Nessuno è veramente libero; la salvezza, se esiste, è una questione di resistenza.
Alla fine, quando torni a casa, fermati un attimo sulla soglia.
Respira.
Quella sensazione di equilibrio precario tra la tua sicurezza domestica e le realtà fuori, in un contesto che può essere ostile e ingiusto, è ciò che ti ricorda che le due Americhe, o qualsiasi divisione simile, sono parte della nostra quotidianità.
Chiediti come puoi contribuire a migliorare la situazione per tutti, per fare, ogni volta che puoi, la cosa giusta.
E nel mio piccolo, io continuerò a fare domande, a cercare risposte e a confrontarmi. Fammi sapere se pensi che ho sbagliato, così potremo proseguire in questo percorso insieme.
Senza supervisione, senza pretese di verità assoluta, ma con il desiderio sincero di capire e migliorare. Unsupervised.